
Uomini e donne al comando si presentano come figure forti, capaci di attirare consenso e guidare masse con il piglio deciso di chi sembra non temere nulla. Ma cosa ci affascina davvero di questi leader che sembrano “tenere a cazzimma”?
Viviamo un tempo singolare, in cui a prevalere sulla scena pubblica sono donne e uomini di comando che, più che più che risoluti, sembrano incarnare una particolare attitudine relazionale e comunicativa, che in certi contesti viene chiamata ‘cazzimma’ — un termine che rimanda a un misto di audacia, spavalderia, risolutezza, sfacciataggine, cinismo, dove il senso non è univoco, ma accoglie sfumature diverse e varipinte, esercitando un suo fascino.”
Sono loro i detentori del potere, seduti nella famosa “stanza dei bottoni”, e lì, talvolta elegantissimi in frac e farfalla, pronunciano frasi “cult”, quali: «Decine di Paesi mi chiamano per negoziare sui dazi. Mi baciano il culo, pronti a fare qualsiasi cosa». Tale dichiarazione dal linguaggio crudo, ad opera di un leader globale, travalica il contenuto per colpire nell’immaginario. Stordita, mi getto tra le metafore raffinate di Montale o Ungaretti, perché possano bisbigliarmi il senso di una “sfumatura” linguistica che forse è un rimando culturale a me ignoto. Mi viene il dubbio che trattasi di un linguaggio simbolico, le cui immagini rinviano a significati nascosti o archetipici ai quali non riesco ad accedere. Infine, desisto: non sono parole simboliche, né metaforiche. È linguaggio letterale, performativo, che pretende di dire “le cose come stanno”. È il linguaggio del potere che indossa maschere vistose, provocatorie, facendosi emblema di un’esibizione di forza.

Questi leader piacciono, persone di cui “sono sicuro non vorreste essere amici”, dichiarava con sicurezza Michele Serra qualche sera fa a “Che tempo che fa”, sottolineando la dicotomia. Eppure il carisma di chi “tiene a cazzimma” sembra operare su frequenze più sotterranee. Come cantava Pino Daniele in A me me piace ‘o blues: “Tengo a cazzimma e faccio tutto quello che mi va”.
Perché così tante persone affidano la loro fiducia a figure che non inviterebbero “a casa propria”, si domanda ancora Michele Serra?
Lungi dall’avere la verità in tasca, chiedo alla psicologia alcune chiavi di lettura, con l’intento di proporre una riflessione da una prospettiva psicologica e culturale, al di là dei giudizi, esplorando piuttosto i meccanismi collettivi e le tendenze psicosociali che influenzano il rapporto tra potere e consenso. Il mio sguardo si muove sul terreno della complessità, dove la fragilità umana incontra talvolta la seduzione della forza.
1. Il bisogno di sicurezza
Al vertice della nostra gerarchia di bisogni, appena dopo quelli fisiologici (mangiare, bere, dormire, ecc.) vi è la sicurezza. Lo aveva ben teorizzato Maslow: l’essere umano desidera sentirsi protetto, al riparo dall’imprevedibile. In tempi incerti, l’eco di parole come “ordine e disciplina” ci offre una parvenza di stabilità, anche a costo di sacrificare diritti, pluralità, complessità. Il “diverso” — che sia lo straniero, la persona gender non conforming, o chi non si riconosce nei modelli familiari tradizionali — può venire percepito come minaccia. La spinta alla protezione genera, allora, la tendenza a sottomettersi al leader più autorevole. Aggredire colui che è percepito come diverso e aderire rigidamente ai valori tradizionali, finisce per essere l’unica strada possibile, la più giusta, quella legittima, atta a garantire l’incolumità. L’autorità forte è vista come rassicurante, una diga contro il disordine, anche quando dietro la forza si cela egocentrismo, anche quando quella protezione è promessa più che garantita.
2. L’irrazionalità dei nostri pensieri
Siamo esseri irrazionali, creature piene di scorciatoie mentali, vittime inconsapevoli di bias cognitivi. Kahneman e Tversky lo avevano già intuito nel 1979: la nostra mente cerca conferme, non verità. Il bias di conferma ci spinge a notare solo ciò che conferma ciò che già crediamo, scartando il resto come rumore di fondo. In parallelo, tendiamo a fidarci di chi sentiamo “dei nostri”. La Teoria dell’Identità Sociale di Tajfel lo spiega bene: bastano distinzioni minime per creare un “noi” e un “loro”. E se un leader riesce a incarnare questo “noi”, ecco che le sue azioni, anche le più discutibili, appaiono giustificabili. Non per ciò che fa, ma per ciò che lui rappresenta. Qualcuno potrà anche definirlo sfacciato, cinico, brusco, gretto, o definire i suoi gesti azzardati, impropri, mossi da interessi personali, ma lo appoggerà comunque, perché rappresenta simbolicamente un’identità collettiva sentita come minacciata. L’ammirazione per la sua figura non subirà danno alcuno.
3. L’abdicazione del pensiero critico
Abbiamo la tendenza a sospendere il pensiero critico per fonderci in una identità collettiva. Freud, in Psicologia delle masse e analisi dell’Io, descriveva il meccanismo con lucidità: il leader, anche perverso, viene investito narcisisticamente. È padre e totem, oggetto d’amore idealizzato. Più trasgredisce, più conquista, più viene mitizzato, perché infrange limiti che il singolo non osa oltrepassare. Freud prosegue l’analisi identificando inquietanti vizi congeniti quale substrato alla modernità, dove vige un’irresistibile tendenza a scatenare violenti terremoti politici. Il sogno moderno di una società in cui non vigono più rapporti asimmetrici di potere, senza verticalità né comandi, viene infranto dal ritorno del Padre primordiale, dai tratti osceni e prevaricatori, cui viene prestata un’obbedienza cieca e irrazionale. Massa è il nome di questa malattia.
4. L’effetto Dunning-Kruger
Un altro paradosso psicologico vede chi ha scarse competenze tendere a sopravvalutare le proprie capacità, cadendo vittima di una distorsione cognitiva che porta proprio a sovrastimare la propria preparazione giudicandola, a torto, superiore alla media. Lo dimostrano Dunning e Kruger nel 1999. Chi conosce poco, si fida di chi semplifica: frasi brevi, slogan, giudizi netti, colpevoli precisi. È il linguaggio della pancia, più che della mente. E in questo spazio la disinformazione si espande, indisturbata.
Perché la prepotenza riesce a dare a se stessa una forma politica, mentre il garbo, al contrario, sembra muto, annichilito?
Molti non credono più nella politica come dimensione morale. Si sentono traditi, disillusi, avvelenati da un pensiero che recita: “Tanto sono tutti uguali. Meglio uno che almeno parla chiaro”. Non votano più per costruire, ma per far saltare il banco.
In certi casi, potremmo trovarci di fronte a una forma di “populismo reattivo”, dove la disillusione verso la politica genera consenso per figure ritenute capaci di “spaccare il sistema”, più che di costruirne uno nuovo.
Siamo creature fragili, incagliate tra paura e desiderio, tra bisogno e solitudine, tra complessità e semplificazione, tra appartenenza e individualità. Non siamo né sciocchi, né cattivi, solo umani. E nella nostra umanità, talvolta, la voce più forte è quella che urla, non quella che ascolta.
La gentilezza resta ai margini del discorso pubblico, meno appariscente della forza urlata. Ma è proprio nel garbo che può risiedere la vera potenza, nel silenzio a volte: una riserva etica che attende di essere riconosciuta e scelta.
Ci vuole silenzio per sentirla. E coraggio per sceglierla.