
Il significato socio-politico di una mancata risposta
Una riflessione, a mente serena, s’impone sull’esito dei referendum. Una riflessione che consideri il suo esito dal punto di vista squisitamente socio-politico. I dati parlano chiaro: con un’affluenza ferma attorno al 30%, il doppio referendum promosso da alcune forze politiche e sindacali per la riforma della cittadinanza e del lavoro ha mancato nettamente il quorum. Ma oltre ai numeri, ciò che emerge con forza è una riflessione più ampia sull’utilità reale di questi strumenti e sul ruolo della rappresentanza parlamentare in una democrazia matura.
I quesiti referendari chiedevano, tra l’altro, di abbassare a cinque anni il requisito per ottenere la cittadinanza italiana e di modificare alcuni punti dello Statuto dei Lavoratori. Temi sicuramente rilevanti, ma anche profondamente divisivi, su cui è evidente che la nazione non è stata coinvolta né informata con il dovuto rigore.
A differenza di quanto sostenuto da alcuni promotori, l’astensione non è stata semplice disinteresse. Per molti cittadini, e soprattutto per chi si riconosce nei valori del centrodestra, è stata una scelta consapevole. Una risposta silenziosa ma decisa alla tentazione di usare la piazza referendaria per imporre trasformazioni ideologiche, anziché cercare un dialogo responsabile nelle sedi istituzionali. La Premier Giorgia Meloni ha commentato con fermezza: “La cittadinanza italiana è un valore, non un automatismo. E si difende nelle sedi proprie, con leggi meditate, non con scorciatoie plebiscitarie.”.
Il referendum, in teoria uno strumento nobile di partecipazione diretta, si è trasformato negli anni in un terreno di scontro ideologico, spesso utilizzato per aggirare il confronto parlamentare. Ne sono la prova l’enorme quantità di consultazioni referendarie promosse dal dopoguerra ad oggi, ovvero 77, di cui solo 39 hanno raggiunto il quorum, contro i 10 della Francia, i 5 della Spagna e i 3 della Germania, giusto per fare qualche esempio. Ma la democrazia non può vivere solo di momenti emotivi. Ha bisogno di tempo, di studio, di responsabilità. E di governi che sappiano decidere.
In un momento storico in cui le sfide richiederebbero coesione, lucidità e un orizzonte comune, dalla transizione ecologica alle trasformazioni economiche, dalle tensioni internazionali alle fragilità sociali interne, l’Italia si ritrova invece intrappolata in dinamiche che premiano lo scontro a breve termine e la comunicazione per slogan. Il referendum, anziché rafforzare la partecipazione democratica, ha finito per esasperare le contrapposizioni, offrendo una cassa di risonanza a narrazioni parziali e spesso ideologiche. Le riforme, specie quelle che toccano la cittadinanza, l’identità nazionale, il mondo del lavoro, devono nascere da un confronto ampio, dentro le istituzioni. Non da campagne spesso sorrette da slogan e retoriche semplicistiche. L’Italia ha bisogno di stabilità, coerenza e coraggio nelle scelte, frutto della coniugazione di rigore istituzionale e ascolto del Paese reale.
Il messaggio che arriva da questa consultazione è chiaro: la vera partecipazione passa da scelte politiche forti, coerenti e condivise. Non da scorciatoie. Non da provocazioni ideologiche.
Ma l’ultimo referendum ha anche avuto, paradossalmente, un’utilità politica che va ben oltre l’esito formale della consultazione. Sebbene possa sembrare un esercizio sterile, o addirittura divisivo, ha invece messo in evidenza una verità fondamentale per il futuro del Paese: l’Italia non ha bisogno di nuovi strumenti per frammentare il dibattito pubblico, ne ha già in abbondanza, tra social network iperpolarizzati, informazione spesso partigiana e una politica sempre più reattiva che costruttiva. Quello che manca, e che il referendum ha indirettamente reso evidente, è una visione solida, nazionale e responsabile da parte di tutte le forze politiche, indipendentemente dallo schieramento ideologico al quale fanno riferimento.
In questo cortocircuito istituzionale si intravede un segnale importante: la necessità urgente di rifondare la politica non intorno a strumenti occasionali o a operazioni di facciata, ma intorno a un progetto collettivo. Serve una classe dirigente capace di andare oltre il calcolo elettorale immediato, di costruire consenso su basi razionali e condivise, di riscoprire il valore della responsabilità nazionale.
La lezione che si può trarre, dunque, è che il Paese ha bisogno non di più voce, ma di più direzione; non di ulteriori canali di espressione disordinata, ma di una cornice comune entro cui dare senso al confronto. Solo così il dibattito potrà tornare a essere fertile, e la democrazia realmente partecipata e costruttiva.
* Immagine in evidenza creata con IA