Prima del concerto del duo Maria Eleonora Caminada e Leonardo De Marchi, conversazione con il public historia Giorgio Uberti su “L’albinaggio e la gestione degli stranieri a Milano: un tè con Maria Teresa d’Asburgo”.
Si susseguono senza sosta i concerti della ventesima stagione di classica dello Spazio Teatro 89 di Milano, intitolata “Sei gridi di separazione”, realizzata in collaborazione con Serate Musicali, Coop Lombardia e PopHistory e in programma fino al prossimo 22 novembre: una serie di incontri tra musica e storia per riflettere sul distanziamento sociale, necessaria misura di contenimento per proteggerci dal pericolo mortale del Covid-19, ma pur sempre dolorosa rinuncia nei nostri rapporti interpersonali.
Ogni appuntamento è dedicato a una delle diverse giustificazioni addotte, nei secoli scorsi, per attuare separazioni e distanziamenti come forme di controllo, dominio, persecuzione e discriminazione: domenica 11 ottobre (ore 17.30; ingresso 7-10 euro), in occasione del terzo concerto della rassegna, intitolato “Grido 3: Divisi per colore o per sangue”, sarà protagonista il duo composto da Maria Eleonora Caminada (voce) e Leonardo De Marchi (chitarra a 6 e 10 corde), preceduto dal public historian Giorgio Uberti, la cui introduzione verterà sul tema “L’albinaggio e la gestione degli stranieri a Milano: un tè con Maria Teresa d’Asburgo”.
Questo récital per voce e chitarra ha come denominatore comune le lacerazioni prodotte dal razzismo. Discriminare significa dividere, rafforzare in maniera surrettizia l’identità di alcuni disconoscendo la comune appartenenza al genere umano. È normale che l’arte, come le altre sfere del sapere, si interroghi da secoli davanti a queste tensioni e cerchi di risolverle, almeno sul piano ideale. In apertura di programma, troviamo le atmosfere tenere e sognanti del “Wiegenlied” di Gideon Klein, riproposte in un adattamento per voce e chitarra a dieci corde. Esse non lascerebbero immaginare le circostanze terribili in cui il pezzo venne scritto: Klein, ebreo, compose infatti queste note durante l’internamento nel campo di concentramento di Theresienstadt (oggi Terezin, cittadina della Repubblica Ceca).
Il fascino etereo del Wiegenlied si oppone diametralmente alle atmosfere incandescenti e alle masse sonore taglienti di “Stranger” di Giorgio Colombo Taccani, scritto appositamente per questo concerto e proposto in prima esecuzione. Nel brano, che utilizza testi di varia provenienza (termini statunitensi etnicamente dispregiativi, appartenenze razziali riportate sui passaporti sudafricani durante l’apartheid, una breve poesia di Walt Whitman), rivivono gli appellativi con cui in inglese ci si riferisce al “diverso” per appartenenza etnica. Si tratta di un elenco crudo, declamato con violenza straniante, che trascolora nei cupi cluster risonanti della chitarra a dieci corde.
Chi discrimina toglie dignità ad altri individui, svilendoli e rendendoli simili a oggetti: a quest’ultima accezione fanno riferimento tanto la musica di Colombo Taccani quanto l’intima saudade della Bachiana n. 5 di Heitor Villa-Lobos, la cui Aria viene riproposta in una versione dello stesso autore per voce e chitarra. Ripresentare questo brano è anche un tentativo per far valer le ragioni delle popolazioni amazzoniche, oggetto di feroci dinamiche di segregazione nel Brasile odierno. La scelta di “Seguidillas” di Fernando Sor costituisce, invece, un significativo momento di distensione e di stacco, anche cronologico, rispetto al resto del programma. Anche Sor, catalano, visse un destino da esule, non per motivi di appartenenza etnica o confessionale, ma perché i suoi conterranei ravvisavano in lui pericolose simpatie filofrancesi, in un momento – quello delle campagne napoleoniche – in cui nel regno di Spagna non era certo cosa buona apparire come pericolosi afrancesados. Peraltro, la sorte seppe essere munifica con Sor che, toccando mezza Europa nei suoi viaggi, riuscì a imporsi come interprete e compositore di prima levatura.
La chiusura del terzo appuntamento della rassegna di classica è affidata alle note di un compositore, il fiorentino Mario Castelnuovo Tedesco, che è stato una delle voci più autentiche e significative della letteratura chitarristica. L’imponente ciclo del “Divan of Moses Ibn-Ezra”, tratto dalle poesie di un poeta ebreo del secolo XI, è una delle ultime prove dell’autore toscano e ne costituisce una sorta di testamento artistico e spirituale. Rivivono in esso i temi universali dell’amicizia, dei piaceri della vita, degli interrogativi davanti al nulla che rappresenta per noi la morte, ma anche la diaspora, quel destino che vuole il popolo ebraico condannato alla dispersione e alla peregrinazione. Ed è in queste coordinate che si muove la “Ballata dell’esilio”, in cui Castelnuovo Tedesco, emigrato negli Stati Uniti nel 1938 per via delle leggi razziali, esprime la sua nostalgia per l’Italia.
Fonte: Ufficio stampa Spazio Teatro 89 – Andrea Conta