Largo ai napoletani innamorati, a cui non resta che celebrare il “godimento”, di lacaniana memoria, per questa vittoria: abbandono al tripudio di una gioia “eccessiva” che fa dell’esultanza fonte di aggregazione, di condivisione, di appartenenza, di commozione.
“Napoli, sei vita che scorre nelle vene!”, mi frulla nella testa, mentre mi lascio ammaliare dalle viuzze parate a festa, dove tsunami di striscioni bianchi e azzurri intrecciano ringhiere, fili della luce, pali, ganci improvvisati, facendo di un disordine spensierato fonte di brio.
“Che succederà in città se il Napoli vince lo scudetto?”, chiedo al barista, gustandomi un caffè eccellente dopo una lunga scorrazzata nei Quartieri Spagnoli. “Non oso immaginarlo, sul Dio o’ sa! Ma soprattutto, quanto dureranno e’ festeggiamenti a’ vera domanda!”. La brianzola che c’è in me sente una staffilata nel petto: è un moto di invidia! Una città in festa per giorni è qualcosa di inarrivabile per una terra dedita al lavoro (forzato), come quella in cui vivo io.
Non è mero amore calcistico, quello che si respira a pieni polmoni a Napoli, ma autentica devozione (lessico azzeccatissimo di Viola Ardone, che saccheggio impunemente), energia santificata dilagante che riesce ad imbizzarrire perfino una come me, che di solito assiste ad una partita di calcio con lo stesso entusiasmo di una mucca che guarda il treno passare. Il tripudio bianco-azzurro che inzacchera le vie napoletane, mescolando il sacro al profano, elettrizza i passanti. “Largo a noi!”, sembrano gridare le sagome di cartone a grandezza d’uomo dei calciatori prossimi alla vittoria. L’onnipresente Maradona sullo sfondo a vegliare sulla salute dell’intera squadra, martire di un calcio mistico, uomo di culto oggetto di pellegrinaggio; d’altro canto, all’Unto del Signore non si può se non riservare un’inesauribile devozione.
A farsi largo è, forse, molto più di una vittoria agognata, è soprattutto quel bisogno di avere un posto della periferia napoletana, che cerca dentro al gioco del pallone una rivincita. La città, allora, si prepara a fare festa grande, ad abbandonarsi ad una baldoria carnevalesca fino a data da destinarsi, privilegio di cui godere a piene mani, perché dentro è racchiuso un inno alla vita. Onore e gloria alle divinità che hanno illuminato la vittoria: lo scudetto è un miracolo annunciato da onorare come solo con i Santi si è soliti fare. Chissà che questa grande occasione non mancata riesca ad investire altri aspetti della città. Glielo auguro.
Il calcio a Napoli appare ai miei occhi un bisogno, danza di speranze, illusioni, aspettative. Questa vittoria, in particolare, sembra costituire la risposta perfetta a tutte le occasioni mancate di riscatto, dove l’obiettività della classifica non lascia dubbi sulla grandezza partenopea.
Il calcio a Napoli è soprattutto amore e, come solo l’amore sa essere, è anche malattia: dipendenza affettiva! La vittoria, forse, non è nemmeno l’essenziale, lo è la passione profonda per la propria squadra, amore vero che come tale può essere anche pena, perché i napoletani, gente appassionata, sanno bene che le passioni, tutte le passioni, non escludono il tormento. Esserci nella gioia della vittoria, come nell’amarezza della sconfitta, esserci sempre e comunque. Questo è l’amore.
Fuso in un profondo legame di identificazione con la squadra del cuore, il tifoso è un innamorato che attraverso la sua squadra definisce se stesso. La vittoria della squadra è la sua vittoria, perché l’esserci con la propria presenza fisica sugli spalti o a distanza dietro uno schermo, legittima il suo sentirsi parte. Molto più di un semplice hobby, molto meno di un mero sfogo dell’aggressività, far parte della tifoseria è appartenenza sociale, è identificazione positiva nell’entità gruppo. È casa. È famiglia. È vita che acquisisce uno scopo, forse perfino un senso.
Per le frange più impastate, gli ultras, le cose si fanno più pastose: in gioco c’è la supremazia, roba grossa, roba succulenta per l’essere umano, la supremazia di una tifoseria sull’altra. Chi vince prende tutto: onore, gloria, esaltazione del sentimento del proprio valore sia come individuo, sia come gruppo. Ecco che l’ultras, dunque, si infiamma, si batte, si getta nella mischia per difendere ad ogni costo l’onore della propria squadra: sottesa vi è la credenza che la vittoria sia data anche dal sopraffare la tifoseria avversaria. Il comportamento violento, allora, diviene un’attestazione ancora più netta di supremazia e ottenere la supremazia significa essere il più forte di tutti i tempi, il miglior ultras di sempre. Senti anche tu il boato della vittoria che ti sazia dentro?
Siamo esseri umani e, ognuno a modo proprio, tutti alla ricerca di un momento di gloria, di un posto nel mondo, di vedere confermato il nostro valore personale. Abbiamo soprattutto bisogno di amore e si può vivere per un amore quale ne sia l’oggetto. Amore per il calcio, per esempio, perché no? Vale forse meno di vivere per un lavoro d’immagine, per il partito, per la prima al Teatro alla Scala, per un conto ben nutrito in banca?
Largo ai napoletani innamorati, allora, a cui non resta che celebrare il “godimento”, di lacaniana memoria, per questa vittoria: abbandono al tripudio di una gioia “eccessiva” che fa dell’esultanza fonte di aggregazione, di condivisione, di appartenenza, di commozione. Perché la vittoria fa così, commuove: calde lacrime rigano il viso, raccontando di un sogno d’amore che si avvera.