
Ho sempre creduto nel potere salvifico dell’autoironia, ancor di più nel potere del riso. Cos’è la vita se non una comica tragedia che non può che suscitare il senso del ridicolo guardando dall’esterno chi la vive seriamente. Il riso come atteggiamento di sfida, anche quando è semplice smorfia, ridere in faccia alla sfortuna, alla nostra sfida perduta contro le forze della natura, ridere bisogna se non si vuole impazzire.
Non sentirsi parte di un mondo è condizione banalmente comune a chi vuole assumere posture intellettualistiche, più spesso sono solo affermazioni di principio, ancor più spesso mediate con annacquature di circostanza. Un “attore” può scegliere di essere un componente integrato, affrontare un “pubblico” ostile farsi saltimbanco, essere o apparire un pazzo artificiale, un buffone volontario sottolineando una condizione di diversità, nel bene e nel male, che è comunque una scelta.
Esiste sempre una non visibile ad occhio nudo linea di separatezza tra chi si fa attore e gli altri uomini che sono pubblico, questi ultimi si limitano ad applaudire o a insultare, sono i rinunciatari vivono mutuando emozioni dalle altrui rappresentazioni di vita, si dispongono in cerchio per meglio vedere e godere di scelte che non faranno mai se non incitando gli altri a scegliere.
Si delinea quindi la centralità di qualcuno, amplificando così la distanza tra due mondi, quelli che vivono con il timore di essere osservati e chi cerca lo sguardo di chi osserva.
Nessuno, anche chi cerca di essere solo pubblico, può esimersi da interpretare giornalmente almeno un personaggio, ed è così che incontriamo nelle nostre quotidianità, acrobati, equilibristi, clown, buffoni e mimi ed è all’ora che scopri che non l’arte ma la necessità crea il padarosso.
Abiti e sfumature rafforzano l’immagine triste o allegra, ma, è seguendo la propria naturale vocazione che scegliamo e ogni giorno indossiamo un abito che non raramente ci stà stretto.