A chi la scrivi? Bella domanda, e poi non ho neanche la busta.
Il non ritorno al paese natio per le festività natalizie, c’è sempre una prima volta.
Avrei voluto continuare a essere figlio per sempre, per sempre avrebbe risposto mia madre non esiste. Tarda serata, Milano e siamo al 21 dicembre, illuminata come un luna park un noto marchio di telefonia proietta immagini natalizie sulla monumentale facciata della stazione centrale. Pista di pattinaggio, alberi imbrigliati in fili che donano al piazzale antistante un’immagine fiabesca. Sfaccendati, umanità multicolore, gente che corre a prendere il treno, famiglie, giovani, studenti o milanesi di nuova migrazione corrono per non perdere il treno che li porterà in altri luoghi. Il cartellone delle partenze affievolisce gli entusiasmi, guardano su in alto e leggono che il loro treno per una inspiegabile magia natalizia accumula ritardi tali da far sperare che almeno per il Natale si arrivi a destinazione.
Sono a Milano, aspetto che il bus navetta partito dall’aeroporto di Orio al Serio mi faccia abbracciare la più piccola delle figlie che vive all’estero. Pregusto il momento, la immagino scendere trascinando il trolley, capelli scomposti e un ampio sorriso….quant’è che non ci vediamo? otto mesi, passa il tempo. Ritornano i figli e si rivoluziona la casa, dolci da ordinare, pietanze da cucinare come fossimo a un ristorante, copertina per il sonno sul divano, pantofole sotto i letti, pigiami sul cuscino. La vita è una ruota, prima ero aspettato, ora aspetto. Il bus navetta arriverà su uno dei due lati della Stazione Centrale, io sono li con un ampio anticipo… non si sa mai. Non è che in giro faccia caldissimo, salgo su ai mezzanini della stazione e mi siedo proprio di fronte ai cartelloni degli arrivi e delle partenze, guardo come se dovessi partire anch’io. Il Milano Lecce segna già 50minuti di ritardo che diventano 60 e poi 90 e ancora non compare da quale binario partirà. I viaggiatori si lamentano, poi neanche tanto, a che serve in cuor loro già pregustano l’arrivo. In fondo per chi emigra il ritorno al paese nativo diventa un pellegrinaggio di rinnovamento e perfino espiazione, «il ritorno» rappresenta un’esperienza integrante della vita dell’emigrato, ogni volta tornano a doversi confrontare con conflitti inattesi e sentimenti complessi sulla propria identità di appartenenza. È difficile descrivere il senso di piacevolezza che ho provato nel sentire le tante voci che dismettono la cadenza milanese per riprendere confidenza con il proprio dialetto, mi è sembrato di viaggiare a ritroso nel tempo. Era la scena che si ripeteva a ogni nostra partenza negli anni in cui le figlie erano piccole e scendevano con noi dai nonni. Appena salito sul Milano Lecce o Milano Taranto venivo posseduto dalle voci degli antenati e iniziavo a parlare in dialetto. Mi è sembrato di essere in una scena, in una fotografia, le scarpe che si slacciavano, le bibite per il viaggio e Milano nella pelle. Guardo i viaggiatori e nei loro occhi intravedo paesi con il mare, tramonti da godere e il vento tra i capelli. Pregustano piatti che soli li, nel luogo dove stanno andando, hanno un gusto unico e nell’accomodarsi a tavola occuperanno il solito posto che è il loro da sempre. L’altoparlante annuncia la soppressione di un treno locale, per un attimo sono tentato di mettere la mano in tasca e controllare l’orario di partenza del mio treno, ma, io non devo partire è solo un desiderio, miscuglio di varie memorie. La nonna, i genitori, la famiglia che mi aspettavano, la nonna in particolare, mi guardava con occhi che tradivano la pena di altri addii. Un centrifugato di contraddittorie emozioni, salirei clandestinamente sul primo treno, ammesso che parta, ma poi all’arrivo che cosa succederebbe se uno non dovesse sentire di essere arrivato a casa?
La serata che è oramai notte si dilata, tutt’intorno e un andirivieni, gente che alza il passo, valige che si toccano come su un autoscontro, facce indecifrabili, non so come spiegarmi che ogni cosa può tornare nelle ombre di un passato anche perché squilla il telefonino è mia figlia. La casa del paese, l’inverno, i giorni diversi o sempre gli stessi, tutto si dissolve, mi avvio verso l’uscita, sarei stato tentato da tirar fuori il fazzoletto e salutare quei tanti volti che immagino appiccicati dietro i finestrini del treno che parte, ma il fazzoletto è di carta e non vale. Il telefonino squilla una seconda volta, mia figlia mi corre incontro e mi dice: “Abbracciami forte”, non sono molto avvezzo a queste modalità di affetto, l’abbraccio e quello che per me è il luogo da cui vorrei partire per mia figlia è il luogo del ritorno.