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“El violador eres tù!”. L’inno delle donne cilene contro lo stupro.

12 Giugno 2021 by Luisa Ghianda -

Luci e ombre sulla violenza di genere

Inno delle donne cilene contro lo stupro (“E non è colpa mia / né di dove ero / né di cosa indossavo: lo stupratore sei tu, el violador eres tu’ ”), oggi è adottato in tutto il mondo, senza che sia necessario abbracciare un femminismo sfegatato per cogliere il bisogno sociale di combattere la cultura dello stupro, quella che stigmatizza le vittime e si nasconde dietro una violazione sistematica dei diritti delle donne. 

C’è una mascolinità tossica ed è quella che sfocia in violenza, quella che poi tenta di giustificarsi dietro la vita e il comportamento sessuale della vittima, dove un vestito convenzionalmente provocante conferisce l’etichetta di “peccatrice colpevole”, mentre alcol e droga mettono a rischio del commento: “Se l’è cercata…voleva perdere il controllo!”. Trattasi di quel machismo che si auto-assolve, perché “si sa, gli uomini sono come sono e le voglie sono voglie”.  

Fino al 1996 lo stupro era solo un delitto contro la moralità e il buon costume. Siamo nel 2021 ma la cultura dello stupro non molla la sua presa: ridicolizza e stigmatizza la vittima, mette in dubbio le sue parole, considera il consenso femminile ai rapporti sessuali implicito, come se chiedere assenso esplicito ammazzi il corteggiamento. 

Le micro-aggressioni sono quelle che danno la misura di come un certo maschilismo invada la mente anche degli insospettabili emancipati. Magari è l’amico di sempre, che durante una delle mille cene di una vita ti bacia, così all’improvviso senza se e senza ma, finendo per raccontarti le sue erezioni pensandoti, per poi uscirsene con un lapidario: “Dovrei scusarmi con te, ma forse anche no”. Perché no? Dovrei, forse, considerare la tua erezione un onore?    

Altra forma di subdolo maschilismo, il mansplaining (man+splaining, da to explain – spiegare) esprime quell’atteggiamento paternalistico, tipico di alcuni uomini, che tendono a commentare o a spiegare a una donna qualcosa di scontato oppure qualcosa in cui lei è competente. La condiscendenza con cui viene gestito l’intervento si mescola ad un eccesso di sicurezza; non è semplice arroganza, dunque, ma esercizio di potere, che può finire per minare la credibilità della donna al centro dell’attenzione.  

Certamente “non tutti gli uomini sono stupratori, assassini, molestatori, sessisti”. Tuttavia, questa replica non solo non aiuta a risolvere la questione, ma è anche in parte opinabile, perché quella del maschilismo rimane una questione generalizzata. Il problema è sistemico: gli uomini hanno respirato sessismo fin dalla culla, lo hanno assorbito in quanto parte della cultura di appartenenza, ed è sufficiente assistere alla battuta sessista dell’amico del calcetto, rimanendo muti come sassi, per essere parte del problema.       

Sì, anche le donne picchiano, ricattano, esercitano violenza sui partner: non maschi a caso, ma il proprio compagno, marito, ex.  Più che un movente culturale verso un intero genere, trattasi di violenza verso una figura che non corrisponde ai propri desideri, ragione che, naturalmente, non rende il gesto più leggero o impunibile. Tuttavia, la mentalità patriarcale emerge anche in questo caso: quando le vittime denunciano non è insolito che vengano etichettate come “sfigati che non sanno farsi valere”.   

Il portato del patriarcato lascia un’eredità pesante: da una antica demonizzazione che guarda alla donna come ad una strega, al diktat che la vuole confinata al ruolo di madre, fino alla lotta odierna che si focalizza sulla possibilità di una piena affermazione professionale. Già Marx aveva difeso nel Capitale il lavoro femminile: “Se gli effetti immediati (del lavoro dei bambini e delle donne) sono terribili e ripugnanti, contemporaneamente esso contribuisce ad assegnare alle donne, ai giovani e ai bambini di entrambi i sessi una parte importante nel processo di produzione, al di fuori dell’ambiente domestico, nella creazione di nuove basi economiche necessarie per una forma più elevata di famiglia e di relazione tra i due sessi”.

Il giudizio sul femminile è a tratti ancora decisamente troppo svilente: “Fa carriera perché è bella e/o disponibile”, “se la fa con un sacco di uomini: è una zoccola”, fino al sempreverde “sono tutte puttane”, espressione da bar che racconta il tentativo di un certo maschilismo di esorcizzare l’incontro con la diversità che il femminile porta con sé, fonte di fascino quanto di sgomento.  

Nella violenza maschile si nasconde un impulso pedagogico, che tende a spiegare alla donna come incarnare il ruolo di donna, pensiero di Massimo Recalcati, psicoanalista di pregio, che mi trova d’accordo. Io ci leggo anche una spinta appropriativa, che si declina in quel “tu sei mia”, troppo spesso scambiato per passione, quando ne andrebbe vagliata attentamente la tendenza alla coercizione. Accettare il ruolo di “roba” tocca questioni psicologiche che attengono alla sfera della dipendenza affettiva, una “brutta bestia” che confonde e lacera, meritando di essere presa in cura negli appositi spazi.  

Tuttavia, va detto che per essere maschilisti non bisogna essere maschi. L’identità femminile è influenzata, più o meno consapevolmente, dal pensiero patriarcale: la costruzione sociale dei generi tocca sia i maschi, sia le femmine, generando ignare forme di adesione al patriarcato. Alcuni esempi? Additare una vittima di revenge porn quale poco di buono, cambiare una maglietta aderente se te lo chiede il fidanzato, togliere un paio di tacchi alti poco prima di presentarsi ad un appuntamento di lavoro per paura di essere additate come “vamp o femme fatale”, ma anche rimanere asservite al fantasma di matrice maschile incarnando l’oggetto del desiderio (sexy sempre e a tutti i costi) oppure vestendo, per contro, panni sacrificali (serva senza riserve). 

Siamo tutti chiamati in causa, quando trattasi di combattere il maschilismo: quello radicato dentro di sé è duro a morire, perché è culturale, ma possiamo piano piano fare un po’ di “pulizia in casa” e stare a guardare che effetto ci fa. Naturalmente ci sarà sempre qualcosa che rimarrà fuori dalla percezione personale, ma la questione sta nell’iniziare a metterci mano, cogliendone l’urgenza.   

La violenza, poi, aliena l’anima. L’art. 609 bis del codice penale vuole la denuncia dello stupro entro un anno; chissà che un anno sia davvero sufficiente per trovare la forza di denunciare. Perché farlo comporta superare il trauma, gestire la vergogna di confessare, affrontare la paura di non essere creduta, sentire di poter sostenere risposte a domande quali: “Com’eri vestita? Facevi l’autostop, non ti sembra un gesto incauto? Perché avevi bevuto? Come mai eri da sola quella sera? Ci sono dei video, sembra ti stessi divertendo alla festa…”.

Abbiamo bisogno di coltivare un’educazione sentimentale che porti all’accettazione dell’Altro come libertà inalienabile. Educare il pensiero, lo sguardo, la parola. Aiutare i giovani a costruirsi una salda autostima, perché è anche da quella che nasce il rispetto per l’Altro: se non c’è eccessiva fragilità da tenere a bada, non c’è forte necessità di schiacciare l’Altro, né di lasciarsi schiacciare dall’Altro. 

L’amore, diceva Jacques Lacan, psicoanalista francese, è sempre eterosessuale, nel senso che è amore per l’eteros, inteso come altro da sé, amore del diverso, del differente. Al di là dell’anatomia dei sessi, nell’amore l’incontro è con la donna, ovvero con l’ingovernabile del femminile. Ma l’ingovernabilità fa paura. La femminilità, in quanto espressione dell’eteros, è sinonimo di abisso, vertigine, irrappresentabile. Genera angoscia. Rifiuto. Inoltre, il salto verso l’eteros implica necessariamente, sventuratamente, ineluttabilmente l’esposizione assoluta alla possibilità della perdita, quindi al brivido della morte. Altro dato dirimente. 

Il tempo della donna-oggetto non riconosce la bellezza della diversità dei sessi, la teme, ma “la donna è il nome della differenza”, per citare ancora le parole di Massimo Recalcati. Alla luce di tutto questo, i gesti coercitivi del patriarcato mi appaiono tentativi di addomesticamento dell’eteros. Tuttavia, il livello di civiltà di una società si misura proprio sulla sua capacità di accogliere e far circolare la differenza, la diversità, l’eteros appunto. Nel pensiero di Marx, favorevole all’emancipazione delle donne, l’abolizione della proprietà privata doveva fornire le basi materiali per trasferire alla società le responsabilità sociali appannaggio della donna (cura dei bambini, degli anziani, dei malati, educazione, ecc.), liberandola dal peso della servitù domestica, aprendone la partecipazione a membro creativo e produttivo della società, a beneficio delle relazioni umane, trasformate, così, in relazioni libere, di persone libere. 

La lingua dell’amore non può che consumarsi nell’amalgama tra diversità che si compenetrano. Alfabetizzare alla lingua dell’amore rimane la chiave, quell’amore che rispetta la differenza perché ne ha compreso la ricchezza, che vuole libertà perché sa che, sebbene l’amore implichi appartenenza, non vi può essere proprietà dell’Altro. Se l’amore è quel miracolo che “dà la capacità di vedere al di là dei suoi incantamenti, ma senza che l’incanto scompaia”, come scrive C.S. Lewis in “Diario di un dolore”, come può il possesso restituire all’amore tale straordinarietà?  

Archiviato in:Sociologia Psicologia Pedagogia Antropologia, Anno VII - n.75 / Giugno 2021 Contrassegnato con: Arte, Cultura, Farecultura, Luisa Ghianda, Prima Pagina, Psicologia, Sociale, violenza di genere, violenza sulle donne

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