Appuntamenti dal 14 al 18 novembre a: Auditorium Parco della Musica | Casa del Jazz | Monk | Alcazar
Viene da Minneapolis, la città di Prince, e si sente. La sua è una miscela di funk, funk e ancora funk.
È il chitarrista Cory Wong e sempre giovedì 14 novembre alle ore 21.30 all’Auditorium è pronto a far tremare le mura del Monk Club di good vibes, come promettono i titoli del suo ultimo album uscito da pochissimo Motivational Music for the Syncopated Soul e del precedente The Optimist.
Il giorno seguente, nuova deviazione fuori dalle sale della casa madre del Roma Jazz Festival: alle 21.30 di venerdì 15 novembre all’Alcazar arriva il sassofonista Donny McCaslin, noto anche fuori i confini del jazz per la sua partecipazione a Blackstar, album canto del cigno di David Bowie. Blow, il suo ultimo disco, è una superba espressione di rock artistico, con melodie orecchiabili e assoli di sax, con una gamma di suoni convincenti e un’intensità che impreziosisce ogni traccia. Il suo quartetto ha il ritmo e l’impatto di uno spettacolo rock e la complessità e l’attenzione di un concerto jazz.
L’intensità, la passione e la complessità delle parti di synth, la batteria hard, lo spessore del basso, il caratteristico tono del sax di McCaslin sono tutti immediatamente riconoscibili, creando nell’ascoltatore la sensazione che ci si trovi davanti a un artista che è al tempo stesso jazzista, improvvisatore, rocker e musicista pop. Dopo l’energia di Wong e McCaslin, si passa alla malinconia di chi ha vissuto in prima persona l’esperienza dell’emigrazione.
Parliamo della musicista albanese Elina Duni, in programma sabato 16 novembre alle 21 alla Casa del Jazz con un concerto in solitaria per voce, pianoforte e chitarra. Nata a Tirana, Elina Duni ha lasciato l’Albania insieme alla madre subito dopo la caduta del regime comunista. In Svizzera ha conosciuto il jazz e se ne è innamorata.
Il suo ultimo album, Partir, che si apre con un’abbagliante versione di Amara terra mia di Domenico Modugno è composto da 12 brani cantati in nove lingue diverse e da sonorità che evocano le tradizioni albanesi, svizzere, armene, arabo-andaluse, portoghesi e yiddish. Sono canzoni d’amore e di perdita, che cantano la struggente nostalgia di chi si mette in viaggio, fra il dolore della separazione e il coraggio di cercare nuovi inizi.
E dopo Archie Shepp, un’altra leggenda vivente del jazz e non solo. L’appuntamento con Abdullah Ibrahim è domenica 17 novembre alla Sala Sinopoli dell’Auditorium PdM, ore 21. A voler tentare la difficile impresa di ripercorrere in modo sintetico la carriera di questo strabiliante ottantenne sudafricano, possiamo dire che con il nome di Dollar Brand rimase nel suo paese d’origine fino agli inizi degli anni ’60 suonando al fianco di Miriam Makeba e fondando la prima importante jazz band del continente africano.
Costretto all’esilio in Svizzera per fuggire dagli orrori dell’Apartheid, fu scoperto nel 1965 nientemeno che da Duke Ellington che lo trascinò a New York. Negli States divenne membro dell’avanguardia al pari di John Coltrane e Ornette Coleman, con cui collaborò in diverse occasioni, imponendosi grazie al suo originale stile pianistico denominato african piano, sintesi di tradizione jazzistica, innovazioni dell’avanguardia free e influenze africane. Nel 1968 Brand si convertì all’Islam e prese il nome di Abdullah Ibrahim, che gradualmente negli anni fece svanire il ricordo del precedente nome d’arte. Durante gli Anni Settanta e Ottanta, divenne la figura più rappresentativa per l’integrazione della scena jazz africana. Figura simbolo della lotta al razzismo, il pianista è ritornato in Patria dopo la fine del regime. Ascoltare il pianista Abdullah Ibrahim è una esperienza che trascende il puro fatto musicale. La sua musica è meditazione, preghiera e canto, un canto di amore, pace e fratellanza che si rivolge a tutti gli uomini nel segno di un rinnovato umanesimo.
Si passa in Sala Borgna il giorno seguente, lunedì 18 novembre, per assistere al concerto del chitarrista, pianista e compositore statunitense Ralph Towner, figura che incarna perfettamente l’ideale di musicista in grado di padroneggiare i diversi linguaggi della musica classica, del jazz, delle musiche popolari, e di saperli fondere in una sintesi avanzata al servizio di una espressività in grado di aderire allo spirito dei tempi. Componente essenziale della storica band Oregon, Towner ha una carriera solistica documentata da oltre quarant’anni dalla casa discografica ECM, della cui estetica inclusiva e trasversale è uno dei più importanti esponenti.
Fonte: Ufficio Ufficio Stampa Roma Jazz Festival 2019 – GDG Press