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Report da una Comunità Psichiatrica in tempo di Coronavirus. Non si parla di come vivono l’esperienza dell’isolamento queste realtà.

18 Maggio 2020 by Redazione Farecultura -

“Io resto a casa” è lo slogan che ci siamo sentiti ripetere di continuo durante li periodo di ritiro nelle nostre case.
Che significato ha questo slogan per chi non ha una casa o per chi una casa ce l’ha ma non può tornarci?

 

“Io resto a casa” è lo slogan che ci siamo sentiti ripetere di continuo durante questo periodo di ritiro nelle nostre case. Un po’ per aiutarci a sostenere un’idea che in questo caso si fa necessità, un po’ per sentirci tutti uniti verso una direzione comune, come se questo fosse utile ad impegnarci, a sentire che è importante. Allora abbiamo iniziato a chiederci: che significato ha questo slogan per chi non ha una casa o per chi una casa ce l’ha ma non può tornarci o ancora, per coloro i quali hanno un senso di casa stravolto da un momento di vita complesso, fatto per riadattarsi, ritrovare un equilibrio e forse, anche per trovare il proprio posto nel mondo, come gli utenti di una comunità riabilitativa?

Come chiunque di noi stia affrontando “la quarantena” è piuttosto noto, social media, TV e ogni forma di comunicazione è al nostro servizio per raccontare come stiamo, cosa facciamo e la risonanza mediatica è fortissima.
Ma che risonanza sta avendo la storia di persone che vivono questa esperienza di isolamento in altre realtà? Chi ne parla?

Impegnati ad affrontare la situazione di emergenza, noi operatori di una Comunità Psichiatrica, abbiamo sentito la necessità di trovare del tempo per dare spazio alle riflessioni, alla critica, alle emozioni, al pensiero, alla parola perché non si perdesse, almeno nell’espressione di sentimenti, quella libertà che al momento è limitata e confinata all’interno di un edificio che non è esattamente casa. E perché, forse, dalla riflessione sia possibile trarne qualcosa per noi, per decidere cosa prendere da questa esperienza che ci riguarda tutti.

Così abbiamo chiesto agli Ospiti della struttura con cui condividiamo 12 ore al giorno cosa ne pensassero, se avessero qualcosa da dire, perché la nostra intenzione è di dare loro un eco. Hanno voci abbastanza forti da poter essere sentite, hanno cose da dire, esperienze da raccontare ma non sempre troppi uditori pronti ad ascoltare.

Chissà se leggendo non ci si possa anche riconoscere e ritrovare nei sentimenti espressi.

Ed ecco che loro ci raccontano che è difficile stare alle regole imposte in periodo di isolamento perché significa rinunciare anche a quelle poche libertà che hanno faticosamente conquistato nella quotidianità. Per chi ogni giorno, senza l’emergenza sanitaria, affronta la lontananza dai propri cari, programma il proprio tempo anche per uscire – perché non sempre si sta bene per uscire o andare a lavorare – per chi quotidianamente lotta con la frustrazione di sentire imposti dei limiti, questa situazione amplifica ogni cosa.

Per qualcuno ‘è stato un bene affrontare questa storia in una struttura (protetta)’ perché pur avendo molto chiari i limiti e i pericoli teme che sarebbe stato difficile controllare i propri impulsi, agendo senza pensarci troppo e magari rischiando di infrangere qualche regola. Sarebbe stato difficile reagire al nervosismo di non poter fare tutto quello che avrebbe voluto e chissà come sarebbe finita.

D’altronde fare delle rinunce sembra essere stata la cosa più difficile: fare una passeggiata, incontrare la madre per pranzo o i fratelli per un abbraccio. Rinunciare agli amici nel fine settimana, all’ippoterapia, ad andare a messa la domenica, sospendere i colloqui di lavoro e l’inizio di nuove opportunità faticosamente costruite. Eppure, delle risorse si sono fatte avanti, come salvagenti quando si teme di annegare e poi invece scopri che puoi nuotare: sapere che in fondo non siamo soli, che possiamo contare su qualcuno, che tante persone nel mondo si stanno impegnando in questa lotta comune, sentire che “io” posso farcela ad affrontare momenti difficili. La capacità di adattarsi e reiventarsi sfruttando le comunicazioni a distanza con maestri d’arte per le attività e con le famiglie per l’affetto e la vicinanza. Trasformare il motto in “io resto in comunità” e sentirlo una responsabilità e non una costrizione. Tutto questo è la resilienza di un gruppo che affronta questi giorni stando nell’esperienza delle cose che accadono. E noi con loro.

Intanto, insieme, si sogna il momento in cui di nuovo sarà possibile aprirsi al mondo e alla domanda “qual è la prima cosa che vorresti fare quando si tornerà alla normalità?” rispondono:

– fare delle lunghe passeggiate per le strade con la gente
– abbracciare la mia famiglia >>
– smettere di avere paura del virus e baciare la terra
– vorrei far festa e poi dare solidarietà a chi ha sofferto
– andare a trovare i nonni
– incontrare il mio psicologo
– andarmi a mangiare un panino bello grosso, all’aperto

A riguardare bene credevamo che fosse importante mettere in luce le differenze, raccontare di chi può aver vissuto tutto questo differentemente dalla “normalità” che conosciamo e invece, ci scopriamo a trovare le somiglianze, ad incontrare l’altro che è esattamente come noi, impaurito, nostalgico, preoccupato, alienato ma anche pieno di risorse e con la speranza che tutto questo finirà presto per tornare ad incontrare le persone.

Quando la pandemia finalmente finirà e le persone usciranno dalle proprie case dopo una lunga chiusura, si potranno presentare possibilità nuove e sorprendenti e forse aver toccato le fondamenta dell’esistenza promuoverà un cambiamento.

E tu, cosa farai appena tutto questo sarà finito? Questa esperienza ci farà rivedere le nostre priorità? Senti che qualcosa in te è cambiato?

Dott.ssa Rosemary De Carlo TeRp
Dott.ssa Sara Utano Psicologa

Archiviato in:Anno VI - n.62 / Maggio 2020, Sociologia Psicologia Pedagogia Antropologia Contrassegnato con: Comunità Psichiatrica, comunità riabilitativa, Io resto a casa, io resto in comunità, isolamento, Psicologia, quarantena, ritorno alla normalità, struttura protetta

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