Pace, pace e ancora pace sino a dopo la festa. Dopo, i ramoscelli d’ulivo si seccheranno, le parole torneranno ordinarie e ci si predisporrà per la prossima ricorrenza, non necessariamente religiosa. Nel nostro tempo sono le vacanze la vera festa religiosa per i seguaci del divertimento costi ciò che costi.
Non amo le feste comandate, specialmente quelle che ti portano a doverti inventare una risposta alle rituali domande: “cosa fai per le feste?” o “dove vai per le feste?”. Le risposte non interessano, interessano di più le domande che devi ribaltare al tuo interlocutore perché possa darti minuziosi dettagli sul dove ha programmato di trascorrere le feste, ovviamente, lontano dai riti e dalla gente. Ora, mi chiedo, se non ti interessano le “feste comandate” come il Natale o la Pasqua perché non parli solo di vacanze?
Odio le feste per il solo fatto che ti devi sentire obbligato a raccontare una bugia che possa suscitare l’invidia del tuo interlocutore a cui non interessa saper che della Pasqua ti affascinano i riti della Settimana Santa, non gli interessa sapere che senti le feste comandate come un “obbligo” a tornare alla casa di famiglia perché il tuo genitore superstite vorrebbe sempre vedere la famiglia unita, non gli interessa cosa ne pensi, ti pone domande trabocchetto per far partire la narcisistica descrizione di viaggi che con la “festa” nulla ci azzeccano.
Superata la dogana della buona creanza e ascoltato con paziente disinteresse la sciorinatura del “adesso ti racconto dove andiamo e con chi”, un’altra beffa ti attende. Arrivi al tuo paese, scendi alla stazione e cerchi l’invisibilità, un po’ ti vergogni per la tua preistorica scelta di viaggiare in treno, poi ti capita sempre quello che ti dice: “vergognati, se me lo dicevi ti venivo a prendere a Barletta, perché hai preso il locale?”. Non rispondo, mi stringo nelle spalle, conto sino a mille e con un sorriso di circostanza gli rispondo: dai ci vediamo più tardi. Percorro, per scelta stradine secondarie trascinandomi le valige che pesano sempre troppo per i troppo pochi giorni di permanenza.
Se il tempo fosse un gambero, ripeto dentro di me, mi ritorna alla mente i ritorni a casa, mia madre che ogni due tre ore mi telefonava per sapere a che punto eravamo, che sin dalla sera prima spiava da dietro alla finestra il cancello d’ingresso, mio padre pronto con il telecomando ad aprire il cancello del passo carraio anche quando arrivavamo senza macchina. Era una festa silenziosa, entravi e a qualsiasi ora la cucina sembrava quella di un ristorante, era l’idea ossessiva che a Milano si mangia male e che certe cose solo a casa sono veramente buone.”Mangia che ti vedo sciupato” oppure come diceva mia nonna “ti hai sciupato, ti vedo secco secco”, questo rito è continuato, con meno cerimonie anche dopo, dopo che mia nonna prima e mia madre dopo non ci sono più state. Facendosi forza, mio padre ha cercato di sostituire mia madre ai fornelli, si adoperava perché gli facessimo i migliori complimenti per come era diventato bravo e pareva apprezzare, per anni aveva osservato tutti i movimenti di sua moglie e da uomo aveva goduto d’essere servito e accudito, dopo si è arrangiato … il tempo passa e apre ferite che non si rimarginano, la vecchiaia, lo spirito sconfitto dalle troppe domande senza risposta e la consapevolezza che la strada si stia accorciando non gli hanno tolto il desiderio di vedere alla sua tavola la famiglia.
Arrivi al paese, tu arrivi e gli altri partono, dicono: “quest’anno basta parenti, basta i soliti rituali, andiamo lontano da tutto e tutti, vogliamo dedicarci solo a noi stessi” poi il più furbo ti propone: “perché non venite anche voi”. Ora, io dico, capisco tutto, ma non ti viene in mente che sono appena arrivato e che se sono giù una qualche ragione ci sarà?
Amare le feste dovrebbe essere scontato, inevitabile. Le feste comandate dovrebbero essere comandate, appunto, per far star bene la gente: come si fa a non amarle? E amare le feste vuol dire, come minimo, prima desiderarle, attenderle con ansia, prepararle, poi celebrarle e immortalarle con fotografie e attenzioni, infine ricordarle e rimpiangerle. Sono tutte fasi diverse e specifiche per ciascun tipo di festa, con regole e rituali precisi. Bisognerebbe distinguere chi dice di odiare le feste per marcare la propria differenza, da chi invece dice di odiarle perché durante le feste in qualche modo soffre e ancora bisognerebbe distinguere chi soltanto dice di odiare le feste da chi le odia davvero. Io credo di essere, a fasi alterne, ora uno che solo dice di odiare le feste, ora uno che le odia davvero perché ci sta male. Per vivere le feste come le intendo io, non occorrono solo rituali, contesti e persone, ma soprattutto sentimenti ed emozioni. Se non sono già felice per conto mio, una festa che pure in sé mi piace non mi farà felice. La felicità cade un po’ nel paradosso della spontaneità: come non si può ordinare a qualcuno di essere spontaneo, così non si può comandare la felicità. E allora, secondo me, bisogna avere il coraggio di adattare la festa al proprio modo di essere e sentire, anche a condizione di negare la festa stessa.
Io celebro comunque le feste, con rituali personali che dall’esterno qualche volta sembrano negare la festa: dentro di me non dimentico mai che è un giorno di festa, anche se non sto facendo nulla per festeggiare, o perlomeno nulla “di quello che dovrei”. L’attesa è solo uno degli ingredienti del piacere di una festa, ho fatto solo in parte quello mi proponevo di fare: la collazione al solito bar, una carezza al marmo freddo con le foto dei cari che riposano in eterno, l’attenzione alla famiglia perché si creino le condizioni del piacere dell’incontro e una passeggiata a godere della meraviglia degli alberi da frutto in fiore che ci doneranno dolcezze. Se li avessi visti d’inverno non avrei mai pensato al miracolo del risveglio. Il giorno di Pasqua nella Cattedrale ho scambiato gli auguri con sconosciuti condividendo la gioia (spero non illusoria) della risurrezione. In fondo amo le Feste, mi ricordano l’entusiasmo di quando ero ragazzo e oggi la gioia del ritorno a “casa”.