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“A Promise Land” (Una terra promessa), memorie di Barack Obama.

4 Febbraio 2021 by Paolo Rausa -

La recensione del libro del Presidente venuto da lontano, Barack Obama. La madre gli ha insegnato con la sua vita a ribellarsi alle convenzioni. Michelle, la compagna fedele, lo accompagnerà in tutte le sue battaglie.

Certo, per uno che cammina piano “con passo hawaiano”, come ripeteva Michelle, la strada compiuta è stata lunga. Di famiglia modesta, praticamente senza il padre di origini keniane, visto appena una volta, ma indirizzato dai nonni materni, progressisti per gli standard dell’epoca, a tenersi aggiornato. “Informarsi è compito di ogni buon cittadino.”, gli diceva la nonna. Mentre la madre gli ha insegnato con la sua vita a ribellarsi alle convenzioni. Da piccolo ascoltava volentieri i suoi discorsi, quando la sentiva parlare di marce per i diritti civili, della guerra in Vietnam, dei movimenti femministi e della lotta alla povertà.  Viene così introdotto ai grandi temi, che assillano gli Stati Uniti e il mondo. Da questa scuola parte la sua ascesa, il suo cursus honorum speditissimo. Innanzitutto comprende che l’unico modo per dare effettivamente una mano al prossimo è studiare studiare studiare, di tutto: Ralph Ellison e Langston Hughes, Robert Penn Warren e Fedor Dostoëvskij, D.H. Lawrence e Ralph Waldo Emerson. Per un certo periodo segue la madre in Indonesia trasferitasi lì con il suo patrigno. E poi il ritorno a Chicago. L’ascesa di Obama è irresistibile: le scuole superiori e la facoltà di legge all’Occidental College. Comincia a studiare le suffragette e i primi sindacalisti, Gandhi, Lech Walesa e l’African National Congress, ma è anche ispirato dai movimenti per i diritti civili, Martin Luther King. “Noi riteniamo che sono per sé stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati uguali: questa era la mia America”, dice. Il Paese descritto da Tocqueville, di Whitman e Thoreau, di Thomas Edison e dei fratelli Wright. Di Chuck Berry e Bob Dylan. Era l’America di Lincoln con il suo discorso di Gettysburg, duecentosettantadue parole in tutto, conservato ancora in una copia autografata alla Casa Bianca, dei soldati stremati nello sbarco in Normandia sotto i cannoneggiamenti tedeschi, della Costituzione e del Bill of Rights. Laureatosi nel 1983, si mette al servizio delle organizzazioni di comunità ed entra così in contatto con le storie “fatte di stenti e di piccoli successi” della gente semplice che si aspetta la soluzione ai piccoli problemi della vita quotidiana. Anche questa una lezione di vita, soprattutto nel verificare “la dignità di fondo che anima uomini e donne”. Dopo il primo anno alla Law School incontra Michell LaVaughn Robinson, 25enne, che esercitava la professione forense presso lo Studio Legale di Chicago Sidley & Austin. Fu l’incontro della sua vita, la compagna fedele che lo accompagnerà in tutte le sue battaglie e a cui confiderà i crucci e le difficoltà di mettere in pratica tutti quei principi di eguaglianza, di pace e di collaborazione di cui si era imbevuto nel corso dei suoi studi. Michelle condurrà in proprio delle campagne contro l’obesità e per una alimentazione sana, trasformando parte dei giardini della Casa Bianca in orti, che lei stessa si metterà a coltivare come indicazione di ritorno alla terra e alle buone pratiche naturali. Hanno due figli, Malia e Sasha. La forte propensione alla generosità e al desiderio di contribuire al benessere degli altri, soprattutto dei ceti popolari, lo spingono a tentare l’avventura politica come senatore nel 1995.  Sceglie due veterani della politica e comincia a girare nei quartieri per la raccolta delle firme sotto le petizioni. Una delle caratteristiche salienti di Obama è il rapporto professionale e franco, confidenziale con i suoi collaboratori, scelti per l’umanità e per la competenza: questa sarà la modalità vincente che lo porterà a vincere il seggio in Illinois e poi a scendere in campo come candidato presidente degli Stati Uniti, prima nella competizione interna con i democratici, sfidando Hillary Clinton e poi esterna il repubblicano John McCain. Non è stato semplice per un outsider, nero per giunta, sopportare i discorsi razzisti sul colore della sua pelle e sulle strumentalizzazioni riguardo a supposte convinzioni religiose islamiche a lui attribuite, sul suo nome molto simile al terrorista Osama Bin Laden e sulla sua provenienza dal Sud Est Asiatico: falsità brandite per denigrare. Non ultimo dallo stesso Donald Trump che blaterava pubblicamente e provocatoriamente nelle tv che la sua elezione a presidente dovesse considerarsi nulla, perché non risultava essere nato in America. In questo gli Stati Uniti hanno dimostrato di essere un paese amante della libertà e del coraggio nel sostenere un nero alla Casa Bianca, mai accaduto prima! Michelle lo rimproverava perché i suoi discorsi in pubblico erano lunghi e che dava risposte molto articolate anche nelle competizioni dirette. Temeva che la gente si annoiasse ad ascoltarlo e perdesse il filo dei suoi ragionamenti. Ma Obama voleva arrivare al cuore dei problemi analizzando tutti gli aspetti, inquadrando il retroterra storico, politico e sociale dei suoi interlocutori o delle situazioni in cui era coinvolto come presidente. Così nei rapporti con gli altri Stati, la Cina, la Russia l’Europa, ecc. Ne sono prova le descrizioni ampie e approfondite presenti nel libro, laddove vengono prima affrontati gli antefatti storici e culturali per poi arrivare a capire con chi aveva a che fare quando incontrava i primi ministri o i presidenti. Sempre attento alle ragioni degli altri e comprensivo della storia di popoli, diversi da quello americano, che affrontavano la dura realtà della crisi economica o la durezza della guerra. Nel novembre 2008 diventa il 44° presidente degli Stati Uniti. L’anno successivo gli viene conferito il premio Nobel per la pace. Ed è emozione e festa! Per il Paese innanzitutto che si mette alle spalle la politica discriminatoria del razzismo contro i neri. Il sogno di Martin  Luther King si è avverato e quel posto di Rosa Parks non è più occupato sul tram chiamato desiderio ma sullo scranno più alto del potere americano, la sedia curule. “Chi vi parla non è sempre e comunque contro la guerra, ma sono contrario ad un guerra stupida.”, dice in un convegno.  Come quella che si sarebbe combattuta contro Saddam Hussein in Iraq, quando Bush mosse la coalizione contro il dittatore che non nascondeva armi nucleari e che quindi non rappresentava una minaccia per gli Stati Uniti o per i suoi vicini. La posizione di Barack Obama contro le guerre imperialiste era molto decisa, anche se per limitare l’offensiva dei talebani in Afghanistan fu costretto ad inviare lì un nuovo contingente di soldati. E ripeteva il suo mantra: “Quasi tutte le persone, a prescindere da dove provengano e da come siano fatte, nutrono le stesse aspirazioni. Non vogliono diventare ricche sfondate, ma si aspettano di trovare un lavoro, di non andare in rovina, che i loro figli ricevano una buona istruzione e che possano permettersi l’università, se si mettono d’impegno. Il governo potrebbe aiutarli…” “Yes we can”, è possibile, possiamo farcela. Il suo slogan riempiva i cuori degli americani e dava una spinta per migliorare le condizioni delle proprie famiglie e del Paese. Possibilità e speranza, la sua audacia: sperare non è illudersi ma è impegno a raggiungere non “la”, ma “una terra promessa”, dove ognuno può realizzare le sue aspirazioni. Con l’aiuto del governo, che deve occuparsi della sanità pubblica, dell’ambiente, dei diritti, della pace nel mondo, dell’economia in un periodo di grave crisi e soprattutto di considerare i temi non divisivi. L’idea della collaborazione tra democratici e repubblicani ma anche fuori dalle frontiere non è mai venuto meno nei pensieri di Obama che ha sempre ricercato, come egli stesso documenta nella minutissima e approfondita descrizione di ogni avvenimento pubblico della storia politica americana e mondiale, durante il suo primo mandato presidenziale. Che ha visto il mondo in sommovimento. Il suo discorso agli studenti all’Università del Cairo è un esempio di visione universale che abbraccia fedi, uomini e vicende diverse di popoli lontani che non si avvantaggiano dai conflitti ma dalla collaborazione reciproca, innanzitutto rispettando la cultura e la religione di ognuno. E così durante le primavere arabe Obama non intende sostenere le posizioni dei monarchi, a cominciare dal faraone Mubarak, ma esprimere vicinanza all’afflato di libertà che i giovani esprimevano con le loro adunate oceaniche. Né è insensibile alla situazione israelo-palestinese, riconoscendo il diritto alla sicurezza di Israele ma compiangendo anche le condizioni derelitte del popolo palestinese. Non à la guerre comme à la guerre dunque, ma alla pace e alla comprensione di chi scende in piazza per richiedere libere elezioni e rivendicare la necessità di un cambiamento civile ed economico. Il sogno della libertà americano esteso a tutto il mondo: l’utopia di Barack Obama in questa lunga e dettagliata teoria di fatti interni e internazionali, una grande lezione di umanità, di comprensione e di conoscenza, di buona politica in fondo. Non quindi dei commentari alla maniera di Cesare o le Res Gestae di Augusto ma i ricordi alla Marco Aurelio. Un presidente/imperatore molto vicino ad Adriano nella felice e indimenticabile descrizione che ne ha fatto Marguerite Yourcenar nel libro biografico, anche lui un uomo che veniva da lontano, rispetto al centro del potere.
Garzanti editore, Milano, 2020, pagg. 805, € 28,00.

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