Sembrerà paradossale, ma l’imperfezione umana consente il funzionamento della vita istituzionale e sociale nell’uguaglianza e nel rispetto di tutti.
Pensate se fossimo tutti bravi, perfetti, equilibrati, opportuni e di buon senso, superiori a invidie, rancori, desideri di vendetta, di umiliazione, di fare del male, insensibili all’ira, all’attrazione fisica, ad ogni tipo di tentazione o di desiderio o di debolezza, di vanteria, di protagonismo e di competizione (non sana). Queste imperfezioni della natura umana rischiano di appannare l’immagine anche di chi dovrebbe essere al di sopra di ogni sospetto, perché la “scivolata” è sempre dietro l’angolo. Sono questi elementi che creano imprevedibilità.
Senza di loro forse la vita sarebbe noiosa, sicuramente monotona e troppo prevedibile, non ci sarebbero colpi di testa, tutto sarebbe incastrato al punto giusto e non avremmo sorprese, varianti, imprevisti.
Pensate se tutti fossimo in grado di fare tutto, non si dipenderebbe più dagli altri neppure per una minima cortesia, e questo – nelle ipotesi più estreme – non creerebbe quei legami di dipendenza (se non di ricatto) che scompaginano l’esistente.
In quest’ottica ci si trova a rinfacciare errori, a turbare alleanze consolidate, a interrompere relazioni pubbliche anche di lunga durata a causa dei voltagabbana e di chi subito salta sul carro del vincitore.
Se non ci fosse l’invidia, che viene fuori quando meno ce lo si aspetta, non si interromperebbero complicità assodate. Lo stesso dicasi per le illusioni: quante persone, con oggettive e scarse possibilità di essere elette a cariche amministrative, si candiderebbero se non avessero l’illusione di farcela e un ego smisurato?
Pensate a quante volte i princìpi sono solo un pretesto, magari anche involontario, per coprire piccole miserie personali, ripicche, meschinità, desiderio di emergere. Forse i governi, o gli apparati di potere a tutti i livelli, non cadrebbero così frequentemente. E il rancore sordo, perseguito sottobanco, fa sì che il sottoposto tolga il posto al suo capo, in una dinamica di consorteria, e il ciclo si completa.
Anche i soggetti più integri hanno sempre qualche “scheletro nell’armadio” che ne mina la solidità.
C’è sempre qualcosa che sfugge al prevedibile e alla logica, e così consente a tutti di poter aspirare ad un posto al sole.
C’è un piccolo passo falso, nemico della perfezione e dei cliché consolidati, che consente di sparigliare quanto si credeva immutabile.
Del resto non ci vogliono neppure tanti scheletri nell’armadio, basta anche un solo ossicino, e la vulnerabilità è garantita. La tecnologia, infatti, ci fa vivere in una casa di vetro: tutto è tracciabile e visibile. Se non si è degni di interesse pubblico (ma anche privato, riferito all’ambiente di vita, di famiglia, di lavoro, di volontariato, ecc.) nessuno ti calcola. Ma se si decide di colpire, tutti si è più o meno vulnerabili. Chi vuole il male dell’altro riesce a vedere ogni piccola e insignificante mancanza. Poi ci sono gli esperti nel frugare nella spazzatura la cui dignità è pari alla cattiveria che esprimono.
Anche l’aver chiesto una piccola cortesia vincola, non dico che renda ricattabile, ma non rende liberi. E in un mondo di relazioni, ad ogni livello, è difficile essere totalmente esenti. Il limite strutturale diventa la necessaria imperfezione e forse una benedizione. Se così non fosse non avremmo più dialettica e … la possibilità di coltivare la speranza di farcela.