Gli innumerevoli device informatici, così come i software, sono sempre più a misura d’uomo, A partire dal il recentissimo ChatGPT, sono concepiti per essere talmente umanizzati e fruibili da presentare la tecnologia come tanto avanzata dall’avere un’indole umana, quindi tanto più familiare quanto irrinunciabile per appagare le necessità umane. Almeno questo è quello che vogliono farci credere con le campagne di marketing che accompagnano la loro produzione.
Dai tempi della rivoluzione industriale si specula sull’ipotesi che la macchina possa eguagliare le capacità umane, se non superarle. Un dibattito, oggi, ancor più accentuato da tutte quelle innovazioni tecnologiche nate nel nuovo millennio e che hanno fornito all’uomo e alla società una tecnologia sempre più avanzata e vicina − nelle forme e nelle finalità − alla natura della mente umana. O almeno questo è quanto vogliono farci credere.
Gli innumerevoli device informatici sempre più a misura d’uomo, così come i software sempre più a immagine e somiglianza dell’uomo − primo tra tutti il recentissimo ChatGPT − sono concepiti per essere talmente umanizzati e fruibili da parte di qualsiasi utente medio di internet al punto da rispondere a una precisa e impellente finalità di marketing: quella di presentare la tecnologia come tanto avanzata dall’avere un’indole umana, e tanto umana al punto da apparire così simile al nostro modo di essere e di pensare (per appagare la necessità di percepirla familiare e dunque sicura) e deputata a svolgere le nostre stesse attività (per appagare la necessità di percepirla estremamente utile, dunque irrinunciabile). Insomma, tutto quel che serve per poter indurre i consumatori a fare un uso sempre più largo della tecnologia, sempre più avanzato ed esagerato da causare dei mali esclusivi del nuovo millennio, come la diffusione dei virus informatici, degli IAD (internet addiction disorders), della pedopornografia e del cyberbullismo, della vendita di articoli illegali e pericolosi….Se di molti di questi pericoli ho già trattato sia online sia nei convegni da me tenuti, ora voglio mettervi a conoscenza di un rischio a cui si dà poca o nulla importanza: quello di delegare ogni nostro compito a una macchina (principalmente di tipo informatico, cioè un PC, uno smartphone o un tablet). Come visto sopra, oggi le multinazionali dell’informatica − al fine di incrementare i guadagni e mantenersi concorrenziali − immettono sul mercato prodotti che presentano via via più funzionalità e in grado di fare sempre più cose…a scapito della mente umana!
Facendo un esempio semplicissimo come i calcoli aritmetici, se si prende la brutta abitudine di effettuare qualsiasi calcolo − anche il più banale − tramite la calcolatrice, mano a mano sarà sempre più difficoltoso fare dei calcoli a mente; un altro esempio è costituito dai contatti telefonici: se si fa troppo affidamento sulla rubrica del proprio telefono − rinunziando a tenere a mente anche i numeri più importanti − si finirà per scordarli e, qualora il cellulare dovesse non funzionare (ad esempio perchè rotto, smarrito, rubato o − evenienza comunissima oggigiorno − scarico), si finirà con il non essere più in grado di chiamare alcun numero, nemmeno in caso di emergenza. Il fenomeno esemplificato poc’anzi è spiegabile a livello di plasticità cerebrale: le connessioni sinaptiche che non vengono sollecitate per molto tempo finiranno per sciogliersi e dunque sarà molto difficoltoso − se non impossibile − (ri)fare certe cose che non si fanno da molto tempo, e che pertanto andrebbero obbligatoriamente riapprese. Ma all’evenienza che la tecnologia ci “lasci nei guai” non si pensa quasi mai: non è infatti interesse delle multinazionali dell’informatica, nè delle imponenti campagne pubblicitarie da queste poste in atto, descrivere (anche) i limiti dei loro prodotti. Tutto ciò porta inevitabilmente a un effetto paradosso: spesso, quanto più la tecnologia è avanzata, tanto più è invalidante. Facciamo l’esempio degli antivirus, i cui produttori sono alle prese con un mercato saturo e ipercompetitivo: la gran parte degli stessi è descritta con toni enfatici, epici e altisonanti, come “la miglior suite antivirus di sempre”, con cui poter “navigare sul web nella più totale tranquillità”. Il messaggio è chiaro: fate quello che vi pare su internet − anche le cose più pericolose e senza cervello − perchè tanto ci pensa il super antivirus X Y a tutelarvi da ogni sorta di virus, trojan, backdoor, spyware, adware e chi più ne ha più ne metta. In tal modo si invita indirettamente l’utente a delegare la propria sicurezza informatica a un software (cioè alla “macchina”), andando paradossalmente ad aumentare il rischio potenziale di imbattersi in minacce informatiche: se infatti un utente fosse consapevole che qualunque antivirus, persino il migliore, non essendo perfetto potrebbe anche non rilevare alcuni malware, arriverebbe all’inevitabile (e corretta) conclusione che il primo antivirus è la propria mente. Dunque, pensare di non aprire allegati da mail sospette, evitare di visitare siti potenzialmente pericolosi, tenere costantemente aggiornato il proprio device…. Ora non sto asserendo che l’antivirus non serva, ma prima di tutto viene la mente, quella umana, per il semplice fatto che le macchine non ne sono in possesso e non ne saranno mai.
Di certo al giorno d’oggi e, sicuramente, anche nel futuro la robotica e l’intelligenza artificiale rappresentano e rappresenteranno un (mega)trend imprescindibile per l’economia, la finanza e la società in quanto (fin) troppo presenti nella nostra vita da poter essere relegabili in un angolo. Questa previsione non è solamente teorica, essendo altresì confermata dalle stime rese pubbliche dall’International Data Corporation, secondo cui il mercato globale dell’intelligenza artificiale passerà dai 118 miliardi di dollari dell’anno scorso ai 300 entro il 2026. Cifre veramente impressionanti che non sono di certo sfuggite ai colossi del risparmio gestito: non è un caso che SGR (società di gestione del risparmio, ovvero grandi aziende che si occupano di investimenti del patrimonio mobiliare) quali Allianz, Credit Suisse, DWS, Invesco, Fidelity, iShares/Blackrock e Pictet abbiano creato fondi comuni d’investimento o ETF specificamente incentrati sui robot − così come sull’intelligenza artificiale − che chiaramente rappresentano un interessante ambito d’investimento sia per degli investitori istituzionali sia per quelli retail. Ma ciononostante è assurdo arrivare ad asserire che una macchina possa in futuro raggiungere un tale stadio di evoluzione al punto da permetterle di essere in grado di eguagliare o addirittura superare le performance umane, e ciò è confermato dal fatto che l’uomo − non essendo Dio − non è mai riuscito a creare una copia di se stesso sotto forma di macchina, nemmeno con l’ausilio delle notevoli innovazioni della scienza e della tecnica che sono disponibili al giorno d’oggi. Chi sostiene il contrario, e cioè principalmente le Big Tech (le grandi multinazionali della tecnologia come Google, Meta, Twitter, Microsoft, Apple…) è pienamente consapevole di mentire, ma lo fa per meri fini di marketing, con l’obiettivo di esaltare ed osannare le caratteristiche e funzionalità dell’ultimo prodotto posto sul mercato. E molto spesso ciò avviene con la complicità della stampa, che fa da cassa di risonanza alle sirene delle Big Tech, scordando però che anche quello che potrebbe sembrare il non plus ultra dell’intelligenza artificiale, dell’informatica e di internet, non è altro che una brutta copia della mente umana. Se prendessimo come esempio ChatGPT − spesso descritto da giornalisti poco informati come se fosse un vero e proprio essere umano pensante e comunicante − potremmo notare che la sua modalità di comunicazione è assimilabile più a quella di un pappagallo che a quella di un essere umano: infatti tale chatbot, allorchè interpellato da un utente riguardo a un dato topic, non fa altro che cercare su internet l’argomento, copiarlo (magari anche in palese violazione del relativo diritto d’autore), e poi riproporlo all’utente sotto forma di discorso avente più o meno un senso logico. Ovviamente quanto più l’argomento è difficile, tanto più per ChatGPT sarà arduo riuscire a stilare qualche cosa di utile e sensato. Facendo un paragone con il mondo dell’istruzione, ChatGPT sarebbe come lo studente impreparato il quale, durante un compito in classe, non sapendo nulla di un certo argomento copia ciò che ha scritto il compagno secchione. Può, sì, copiarlo bene (ma anche male), tuttavia sempre un copiato rimane, e dell’argomento in sè, in realtà, non sa assolutamente nulla. Perchè ciò che più manca all’intelligenza artificiale è proprio il processo creativo alla base dei concetti, delle idee e delle riflessioni. Semplicemente l’intelligenza artificiale ignora cosa siano la filosofia e la psicologia. Magari potrebbe enunciare tutte le teorie filosofiche e psicologiche di tutti i filosofi e gli psicologi che sono esistiti (tanto basterebbe copiarle da qualche sito internet come Wikipedia), ma non ci capirebbe nulla e non saprebbe a sua volta trarre insegnamento dalle stesse, nè giudicarle, nè contraddirle, nè rielaborarle. In compenso però ovviamente potrebbe, tanto per fare un esempio, citare tutte le critiche alle teorie di Freud, così come tutti gli autori la cui opera ha origine da quella di Freud, tutti i commenti a tale opera, eccetera, eccetera. Tutto questo rigorosamente a patto che tali informazioni siano già presenti su internet! Se infatti si chiedesse a ChatGPT di muovere delle critiche originali all’opera di Freud − cosa tra l’altro piuttosto semplice in quanto le teorie di Freud sono piene zeppe di errori, che sono venuti alla luce man mano che la psicologia intraprendeva il suo cammino verso lo status di scienza vera e propria − non saprebbe cosa rispondere, se non utilizzando qualche argomentazione nata dalla penna di autori che già in precedenza hanno stigmatizzato Freud e la psicoanalisi. Infine, c’è una precisazione non di poco conto riguardo ChatGPT, perchè oltre a ignorare materie quali la filosofia e la psicologia (ma tanto quanto pretendiamo che ne possa capire un mero calcolatore giunto a uno stadio successivo dell’evoluzione?) ignora anche il buon senso: quanto scommettiamo che questo articolo, dopo essere andato in rete, potrà essere divulgato da ChatGPT qualora gli si chiedesse di redigere un testo sulle critiche a ChatGPT? In pratica si darebbe la cosiddetta “zappa sui piedi” per il semplice fatto di non essere in possesso di quell’acume di cui noi poveri e semplici mortali siamo gli esclusivi depositari.
Ma in una realtà come quella odierna, ove la patinata e glitterata spettacolarità della società futuristica − indissolubilmente legata alla tecnologia e al progresso − ha un ruolo fondamentale nel definire e nel plasmare ambiti quali la società, l’economia, la finanza, la socialità, la produttività, l’istruzione…chi sono i cittadini più soggiogabili da Sua Maestà l’Informatica? Chi è nato con questo tipo di tecnologia, da cui ora è assuefatto: la generazione Z. Non è un caso se al giorno d’oggi ci sono fin troppi giovani i quali hanno instaurato un rapporto malsano con la tecnologia: non uno di utilità, ma di dipendenza, di schiavitù. E, come al solito, la scuola è in gran parte estranea a questo malessere in cui oggi versano i giovani, notandone le conseguenze più che altro sul solo piano didattico. Ma se un alunno non riesce, ad esempio, a scrivere correttamente un tema (poichè il linguaggio a cui è abituato − cioè quello delle chat − è molto diverso da quello di un elaborato scolastico), l’insegnante non dovrebbe limitarsi a dare un cattivo voto, ma dovrebbe tenere delle lezioni sul corretto e sano uso della tecnologia, mettendo in risalto non solo le opportunità che la stessa offre (di cui i giovani sono tipicamente consapevoli), ma anche e soprattutto i limiti e i risvolti negativi su cui porre attenzione, dato che ne sono pur sempre parte integrante. E sono anche in continuo aumento. Basta pensare che “Collection #1”, la frode informatica di dati personali − principalmente indirizzi email e password − più grande della storia di internet ha interessato circa 22 milioni di internauti in tutto il mondo, a cui ha fatto subito seguito l’appello di numerose ditte informatiche di utilizzare i loro programmi per creare un archivio sicuro in cui custodire le password personali e/o permettere di crearne altre più sicure con l’ausilio del software stesso. Una domanda sorge però spontanea: se gli hacker sono riusciti a carpire password persino da giganti del web come Facebook o LinkedIn, non saranno anche in grado di fare lo stesso con questi “archivi protetti”? Forse è meglio far affidamento sulla nostra memoria: è molto meno pubblicizzata e fuori moda, ma in compenso tanto più sicura ed affidabile.
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