Nel parlare comune, siamo abituati a chiamare “crisi” una fase della vita individuale e collettiva particolarmente difficile da superare, una discontinuità nella trama della nostra esistenza, un accesso improvviso e violento (si pensi all’espressione “crisi di pianto” o “crisi di panico”). Quando ciò interessa la collettività, come sta accadendo con la diffusione del coronavirus, i ritmi della vita comunitaria sono perturbati al punto da dover necessariamente andare incontro ad una riorganizzazione radicale che consenta di far fronte all’inaspettato.
Per apprezzare meglio le sfumature del termine “crisi”, data la sua vasta applicazione in diversi ambiti del sapere umano (dalla medicina, alla psicologia e alla sociologia), potrebbe giovare un piccolo tuffo nei meandri etimologici; “crisi” rimanda al verbo greco krino, originariamente usato in riferimento al processo agricolo della trebbiatura, per indicare la separazione dei chicchi di grano dalla paglia e dalla pula; più in generale esso significa “discernere”, “discriminare”, “decidere”. Nella medicina ippocratica il termine “crisi” indicava un punto decisivo di cambiamento, che poteva avere esito favorevole o sfavorevole. Molti secoli più tardi Karl Jaspers, illustre filosofo e psichiatra, sottolineava il carattere di passaggio e trasformazione della crisi, che non necessariamente sfocia nella decadenza, ma può anche condurre ad una nuova risoluzione.
Queste riflessioni ci portano a considerare il momento critico legato alla diffusione del coronavirus non soltanto come l’angosciante incombere di un pericolo invisibile e strisciante, ma anche come il luogo in cui si dischiude l’umana possibilità di scelta, che ci rimanda al significato originario della parola “crisi”.
La possibilità di scelta, l’assumere un ruolo attivo nella determinazione del corso degli eventi non si manifesta solo attraverso le azioni delle istituzioni politiche e sociali, ma anche nell’intimo di ciascuno di noi. È con noi stessi, infatti, che dobbiamo fare i conti: con i significati del nostro mondo interiore, con il nostro modo di guardare al futuro e di dar senso all’emergenza in corso, specialmente ora che le misure di contenimento del contagio ci costringono a limitare il nostro andare nel mondo per ritirarci nella penombra delle nostre case, in un quieto ed attento discrimine sul da farsi.
Focalizzandoci sulla dimensione soggettiva dell’esperienza, come ci insegna la fenomenologia, possiamo mettere a fuoco due modalità antitetiche di guardare a ciò che sta accadendo. La prima modalità è il sentimento di attesa, per cui una possibilità futura (ad esempio il diffondersi del contagio) è vissuta nel suo venire verso di noi, come un’incombenza che ci coglie totalmente passivi e impotenti; un sentimento di questo tipo rischia di sconfinare nell’angoscia, la quale, a differenza della paura, sorge in risposta alla minaccia del non-conosciuto, dell’invisibile, di ciò che non ha una precisa localizzazione: caratteristiche che ben si addicono al coronavirus!
L’opposto dell’attesa è il sentimento di attività, che invece comporta il protendersi verso l’avvenire, contribuire a costruirlo piuttosto che subirlo passivamente. Tale aprirsi all’orizzonte delle molteplici possibilità è anche la radice della speranza, che ci porta a trascendere il qui ed ora in vista di un progetto o di una meta ambita. Il sentimento di attività assume un ruolo cruciale in un momento in cui la libertà di muoversi e di agire è stata fortemente limitata per contrastare la pandemia in corso: sebbene esso sia messo a dura prova rischiando di lasciare il posto all’attesa passiva, ingrediente chiave dei sintomi ansiosi o depressivi, possiamo tuttavia alimentarlo nella nostra quotidianità attraverso la pratica della scelta, come quando si separa la granella di frumento dalla pula.
Tutto questo ci rimanda nuovamente alle radici della parola “crisi”, come se il segreto della resilienza fosse racchiuso proprio nella capacità di conservare uno spazio di autodeterminazione e libertà. Diversi studi scientifici hanno infatti evidenziato come la percezione di poter influenzare il corso degli eventi risulti associata ad un miglior adattamento alle situazioni stressanti.
A cosa può esserci utile questa riflessione in una situazione in cui il dilagare dell’infezione da coronavirus ci ricorda che siamo pur sempre esseri vulnerabili in balìa della natura?
Ci può essere utile nella misura in cui utilizziamo il nostro sentimento di attività non solo nell’adozione di comportamenti volti a minimizzare il rischio, ma anche nella gestione delle nostre attività quotidiane durante la quarantena. Usare il tempo che abbiamo a disposizione per progettare il futuro, per re-inventarci o dedicarci ad attività del tutto nuove. Un esempio, per ricongiungerci con il tema dell’agricoltura evocato dall’etimologia della parola “crisi”, è il giardinaggio, anche inteso come cura delle piante domestiche. Prendersi cura delle piante “muove il corpo” verso la natura, diminuisce lo stress e la fatica mentale; accresce inoltre l’autostima e il senso di responsabilità e autonomia testando la nostra efficacia nel governo dei processi biologici vegetali. Nel fare ciò l’intervento umano è temperato nella sua onnipotenza narcisistica dalla limitazione imposta dai ritmi della natura, ma nel contempo è gratificato nella sua volontà creativa e generatrice.
Giada Del Monaco
Psicologa clinica – Specializzanda in psicoterapia ad orientamento junghiano – Tirocinante del Servizio di Urgenza Psicologica di Milano