Per un pugno di dollari…29 sassate in testa. Siamo a Roma, ma non è Cinecittà, attori protagonisti due adolescenti di 14 e 15 anni, ma non è il set di un film quanto, piuttosto, un minimarket vero, con una rapina vera, con persone vere, con un ferito vero, il cassiere, colpito più volte al volto per un pugno di… euro, 300 per l’esattezza. I due ragazzini sono stati intercettati e sottoposti alla misura del collocamento in comunità.
Dal bullismo alle aggressioni ai portatori di handicap, dai sassi dal cavalcavia ai professori impallinati, dagli stupri di gruppo alle rapine, gli adolescenti, rannicchiati nel “noi” del branco, sono capaci di fare l’impensato “perché ci va”. Un bisogno confuso di provare “emozioni forti”, l’impulso feroce di esercitare il potere sull’altro come occasione per dimostrarsi una forza personale che urla fragilità, forse l’emulazione in leggerezza di un gioco del videogame… Non sempre il movente appare chiaro.
Ciò che, invece, diviene manifesta è l’aggressività, che svela la volontà di distruzione dell’altro. Sullo sfondo il principio di autodistruttività: l’aggressività non sa mai bene se scatenarsi su di sé o sull’altro. La distruttività è costitutiva dell’essere umano: la violenza non è qualcosa in cui cadiamo ma è dentro di noi, la soppressione dell’altro è una cosa naturale, ricorda Freud.
Ne “L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani” (Feltrinelli Ed., 2007), Umberto Galimberti esordisce con “i giovani, anche se non sempre ne sono consci, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro pensieri, cancella prospettive ed orizzonti […]. Le famiglie si allarmano, la scuola non sa più che fare, solo il mercato si interessa di loro per condurli sulla via del divertimento e del consumo, dove ciò che si consuma non sono tanto gli oggetti che di anno in anno diventano obsoleti, ma la loro stessa vita […]”.
Dal 2007 ad oggi le cose non sono migliorate: i giovani, i più colpiti dalle conseguenze emotive della pandemia, stanno anche peggio. L’incertezza di un futuro sospeso continua ad avvolgere le loro vite, una precarietà sorda alle aspettative di autonomia economica ne blocca gli slanci, l’incapacità di riconoscersi parte attiva di una comunità li appiattisce verso il basso. Senza la possibilità di autorealizzarsi, la felicità non può che vacillare, perché senza un futuro che lasci intravedere una qualche promessa, il presente diventa un paradigma in cui annegare l’angosciosa assenza di senso della propria vita. Un sentimento di noia prepotente spalanca, allora, le porte ad un nichilismo che fa del nulla culla, brutta bestia che penetra nei cuori, spargendo atteggiamenti rinunciatari o volti alla distruzione dei valori esistenti. Uno dei volti del malessere è proprio quello della violenza rabbiosa, mentre un grido muto che racconta tanta solitudine interiore svela la paura dell’anonimato sociale.
La capacità di dare alla vita un senso è un’arte o forse una conquista: fare i conti con le aspettative frustrate, stemperare l’amarezza di sogni andati in cenere, tornare a volare alto dopo uno sgambetto. Per i giovani è anche più difficile: crescere significa superare le prove dell’adultità, ma sembra quasi che questi abbiano perso la capacità di diventare adulti, come anche di chiedere aiuto quando serve. Ed il gioco della vita si arresta.
Gli adulti dove si collocano in tutto questo? Perché noi educatori, genitori, insegnanti qualche risposta utile dovremmo pur darcela. Mi chiedo se la scuola dei pc sia una buona compagna di viaggio, perché i libri servono, penso a quelli di letteratura che insegnano i sentimenti, poetica in cui rispecchiarsi dando, così, un senso a ciò che si ha dentro. Mi chiedo se il mondo della rete, con la sua competizione estenuante a chi ha la vita più bella non sia davvero troppo per chi alla vita si affaccia. Iperconnessi eppure persi in un oceano di solitudine. E quel modello consumistico che ci sta alle calcagna ingozzandoci di “nuovo”, come può lasciare spazio alla crescita del desiderio, se tutto è disponibile subito? Perdere il contatto con la vocazione profonda del desiderio impoverisce l’anima, perché quella non ha più niente da desiderare.
Stiamo svuotando, sprecandole, intere generazioni di giovani?
Una luce in fondo al tunnel: l’educazione emotiva, perché l’antidoto alla violenza è l’educazione dei sentimenti. Dall’impulsività, dove l’espressione è affidata ai gesti, alla risonanza emotiva, dove quei gesti trovano il freno del “sentire” e della riflessione su ciò che è bene e ciò che è male. Perché quei giovani violenti non sanno più definire il bene e il male, come se non sapessero più “sentire” né l’uno né l’altro.
Più che un problema di valori, è un problema di parole: mancano le parole per definire ciò che si ha dentro. Ma le parole sono importanti perché danno un nome alle cose, le definiscono, le chiariscono e senza le parole non si sa più descrivere la realtà, né quella esteriore né quella interiore.
Grazie alle parole, invece, le emozioni assumono contorni nitidi e dare un nome alle emozioni è già fare ordine dentro di sé. Con le parole si può spiegare quell’angosciante solitudine esistenziale, definire la mancanza di un rapporto significativo con la comunità di appartenenza, rivelare un certo spaesamento identitario, raccontare un mondo sprovvisto di senso e di prospettiva… Le parole gettano luce sul caos scomposto che si ha dentro ed è solo dopo averlo nominato che posso prendermene cura. Ma se non ne conosco il nome, il decorso, si sta male come cani senza nemmeno sapere di cosa, né dove porti.
Emozioni educate educano anche il pensiero, perché pensare presuppone regolare prima le emozioni. Scuola e famiglia non possono, allora, perdere di vista l’educazione alla parola, parola dei sentimenti. E poi, grazie alle parole qualcuno, magari, ci ascolta. Ecco, l’ascolto, a noi adulti il compito di ascoltare.