
Dalla solitudine digitale al ritorno dei riti collettivi: come e perché la partecipazione di massa agli eventi è diventata la nuova forma di socialità post-pandemica
C’è qualcosa di profondamente istintivo nel modo in cui ci stiamo riversando, in questi mesi, negli spazi pubblici degli eventi collettivi. Una spinta che pare trascendere l’interesse per il contenuto artistico o musicale in sé: ciò che conta, sempre più, è esserci. Partecipare. Stare dentro il flusso della folla. Questa estate 2025 ce lo sta mostrando con evidenza quasi brutale: la partecipazione di massa è tornata a livelli che definire “pre-pandemici” suona ormai riduttivo. Stadi pieni, arene straripanti, teatri e festival con biglietti esauriti nel giro di ore.

I numeri raccontano più di mille narrazioni. Vasco Rossi ha riempito quattro stadi in meno di un mese, totalizzando oltre 400.000 presenze. I Coldplay hanno segnato un clamoroso sei su sei, portando nei grandi impianti italiani più di mezzo milione di persone. Anche artisti meno sistemici come Levante, Calcutta, Frah Quintale o Ariete si sono trovati davanti a platee oceaniche, visibilmente affamate di partecipazione. E se passiamo al fronte culturale, la direzione è la medesima: la Biennale Arte di Venezia ha già superato i seicentomila visitatori, mentre il Salone del Libro di Torino ha toccato il record storico di 215.000 ingressi. Festival come quello dei Due Mondi a Spoleto o la Milanesiana confermano un incremento generalizzato del pubblico dal vivo. L’impressione è che qualunque cosa avvenga dal vivo, sia automaticamente dotata di un’attrazione magnetica.

È naturale, allora, chiedersi che cosa stia succedendo davvero. Perché questa febbrile esigenza di condividere uno spazio fisico, un’esperienza comune, un’emozione collettiva? È solo un trend passeggero, un ritorno al “prima” che per un attimo ci illude di essere normali, o qualcosa di più profondo, e forse strutturale? La verità è che, sempre più spesso, partecipare a un grande evento non è più solo un atto di consumo culturale: è un rito. Un gesto simbolico. Un bisogno. Ma anche, forse, una moda. Una di quelle mode sociali che — come spiegava già Erving Goffman — funzionano da collante simbolico nelle comunità contemporanee: ci fanno sentire parte di un flusso, anche se non ne comprendiamo fino in fondo le ragioni.
In realtà, l’aggregazione attorno agli eventi collettivi è tutt’altro che nuova. L’essere umano si è sempre riconosciuto nella folla. Che si trattasse delle grandi adunate religiose, dei concerti epocali (il Live Aid del 1985 resta una pietra miliare), delle manifestazioni politiche, delle Expo internazionali o delle finali calcistiche, il desiderio di essere parte di qualcosa di più grande è sempre stato presente. Ma oggi è diverso. Oggi c’è un’energia quasi compulsiva nel modo in cui ci buttiamo dentro queste esperienze.
Il post-Covid ha lasciato un vuoto che la socialità digitale non è stata in grado di colmare. Dopo anni di schermi, call, dirette Instagram e concerti in streaming, il corpo collettivo reclama il suo spazio. E lo reclama con forza. La psicologa sociale Sherry Turkle, già nei suoi studi sul rapporto tra tecnologie e identità, parlava di “solitudine condivisa” per descrivere la sensazione di prossimità illusoria che ci viene offerta dalle relazioni virtuali. Oggi, quella solitudine si traduce in un bisogno concreto di prossimità reale. Il sociologo Emile Durkheim lo aveva intuito più di un secolo fa: le società moderne, per quanto individualiste, hanno bisogno di riti collettivi per rafforzare il tessuto del “noi”. E cosa sono i concerti, i festival, le mostre, se non le nuove forme di questi riti secolarizzati?
Ciò che sta accadendo, insomma, non è solo un fenomeno statistico o un trend del mercato dell’intrattenimento: è una forma di risposta collettiva a un trauma condiviso. Dopo l’isolamento, dopo il distanziamento, dopo la paura, la folla torna a essere una cura. Una medicina sociale. Una pratica di ricomposizione simbolica. Ogni biglietto acquistato, ogni corpo che canta in mezzo agli altri, ogni selfie di gruppo davanti a un palco è una piccola riparazione del danno invisibile che abbiamo subito.

Certo, si può discutere quanto di tutto questo sia autentico bisogno, e quanto sia influenzato dalla pressione sociale, dal desiderio di visibilità, dal timore di essere tagliati fuori. Ma forse la distinzione è meno importante di quanto sembri. Perché, in fondo, anche ciò che nasce come moda può trasformarsi in rito, se funziona da collante e produce senso. E la dimensione pubblica della partecipazione sta tornando a essere, per molti, una forma di espressione identitaria irrinunciabile.
In un tempo in cui sembrava che tutto ci spingesse verso la disconnessione corporea e la solitudine relazionale, questo ritorno al “noi” è una buona notizia. Non sarà la panacea di tutti i mali, non restituirà automaticamente profondità alle relazioni umane, ma è un segnale: abbiamo ancora bisogno degli altri. E non attraverso uno schermo. Ma lì, accanto a noi, nello stesso tempo e nello stesso spazio.
Abbiamo ancora bisogno di sentirci vivi insieme.
